Perché il cambiamento climatico dovrebbe preoccuparci più del coronavirus

Lo scioglimento dei ghiacciai rischia di portare alla luce agenti patogeni sconosciuti, sepolti da migliaia di anni. Nuovi 28 virus sono stati scoperti nell’antico ghiaccio dell’altopiano del Tibet, per i quali non disponiamo di alcuna contromisura.

L’allarmismo generato dal nuovo coronavirus – 2019-nCoV – si è diffuso velocemente in tutto il mondo, non solo seminando panico e disinformazione, ma anche alimentando razzismo e discriminazione verso i cittadini di origine asiatica, qualunque sia la loro provenienza. Il virus, scoperto nella città cinese di Wuhan, in realtà ha un tasso di mortalità che si colloca poco al di sopra di una normale influenza, rivelandosi fatale solo per un certo target di persone, ovvero anziani e pazienti affetti da patologie preesistenti.

Nonostante i tentativi degli esperti di rassicurare i cittadini al di fuori dell’epicentro sulla pericolosità dell’epidemia, informandoli delle semplici precauzioni da adottare, il clima mondiale è soprattutto di tensione e panico collettivo. Nel frattempo, però, qualcosa di molto più preoccupante sta finendo nell’indifferenza, pur trattandosi di agenti patogeni potenzialmente letali. Parliamo della scoperta di 33 gruppi di virus, di cui 28 mai osservati prima, sepolti nel ghiaccio antico dell’altopiano del Tibet.

La notizia fa riferimento ad uno studio del 2015, condotto da un team di ricercatori statunitensi. Il team ha analizzato il contenuto microbico di due campioni prelevati a 50 metri di profondità sotto il ghiacciaio tibetano e i risultati sono preoccupanti. I virus intrappolati nel ghiaccio – che potrebbero risalire a 15.000 anni fa – rischiano di diffondersi nell’atmosfera a causa del riscaldamento globale, che ha peraltro un impatto maggiore ai poli del pianeta. Secondo il biologo Jean-Michel Claverie, dell’università di Aix-Marseille, le regioni settentrionali della Terra sono ulteriormente minacciate dal fenomeno, poiché il disgelo crescente attira sempre più interesse per ricerche minerarie e petrolifere, che scavando in profondità potrebbero portare i batteri sepolti alla luce.

Trattandosi di agenti patogeni perlopiù sconosciuti e sepolti da centinaia o migliaia di anni, non sappiamo cosa potrebbe accadere se dovessero diffondersi tra le persone. La gravità legata a questa possibilità è dovuta al fatto che l’uomo di oggi non possiede gli anticorpi necessari per resistere a queste malattie e la medicina moderna non dispone di studi a riguardo per produrre cure o vaccini. Il rischio però, è concreto, avverte Claverie: il permafrost è il luogo ideale per la conservazione di batteri e virus, anche per milioni di anni. Il ghiaccio è privo di ossigeno e luce, spiega, ed è proprio lì che possono trovarsi i responsabili delle epidemie globali del passato. Malattie come il vaiolo, l’antrace, la peste bubbonica, l’influenza spagnola – tra quelle conosciute – potrebbero entrare in contatto con le falde acquifere e con l’aria e diffondersi attraverso gli animali.

Diversi studi hanno dimostrato che questi batteri sono in grado di sopravvivere in ibernazione anche per milioni di anni, muovendosi normalmente e senza subire danni. Nel 2007, ad esempio, un team di ricercatori ha riportato in vita dei microbi estratti da un ghiacciaio in Antartide, rimasti sepolti per circa 8 milioni di anni. Mentre nel 2005, da un antico lago ghiacciato dell’Alaska, un batterio risalente al Pleistocene era sopravvissuto dopo 30.000 anni.

Oltre al fatto che alcune di queste malattie hanno decimato intere popolazioni in passato, un’ulteriore preoccupazione nasce dalla potenziale prossimità del fenomeno. Un episodio del genere si è infatti già verificato nel 2016, quando un’ondata di calore sciolse lo strato superficiale del ghiaccio nel nord della Siberia, liberando un focolaio di antrace che uccise un adolescente e un migliaio di renne e infettò decine di persone. Sotto il ghiaccio erano sepolte le carcasse delle renne che morirono decenni prima a causa dell’antrace. Secondo gli esperti, il batterio era sopravvissuto attraverso i cadaveri infetti e aveva contaminato il suolo e l’acqua una volta che questi erano venuti alla luce, passando poi all’uomo.

Il ritorno di malattie “scomparse” è una delle conseguenze più preoccupanti del cambiamento climatico e potrebbe essere ragione di un allarmismo fondato. La mancanza di contromisure adeguate e la totale impreparazione rispetto a patologie mai affrontate nella nostra società potrebbe indurci senz’altro a rivedere la risposta globale a fenomeni come quello del coronavirus.

Articolo di Erika del 08 Febbraio 2020 alle ore 18:04

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