Coronavirus: chiudere i mercati di animali selvatici potrebbe non essere una soluzione

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Il divieto di commercializzare la fauna selvatica potrebbe generare un pericoloso effetto rimbalzo, rischiando di compromettere ulteriormente la situazione della biodiversità e della salute pubblica.

L’esplosione della pandemia di Covid-19 è stata spesso associata ad un mercato di fauna selvatica a Wuhan, nella Cina orientale, un’attività piuttosto comune in Asia e in Africa, che prevede la vendita delle più svariate specie di animali accanto a frutta e verdura, in condizioni igieniche a dir poco discutibili. Questo genere di attività è da anni oggetto di critiche e iniziative da parte di organizzazioni ambientaliste per le condizioni degli animali esposti, anche vivi, ma anche per il coinvolgimento indiscriminato di innumerevoli specie, tra cui anche animali d’affezione, come cani e gatti, o a rischio di estinzione, come il pangolino.

La possibilità di una trasmissione animale-uomo per mezzo di questi mercati ha condotto alcune organizzazioni per la conservazione della fauna selvatica a chiedere il divieto del commercio di animali selvatici per motivi di salute pubblica. Oltre 200 organizzazioni hanno esteso la richiesta all’intero settore, compreso l’allevamento, l’addomesticamento e l’utilizzo generico della fauna selvatica, anche quando destinato alla medicina tradizionale.

Sebbene la Cina e il sud-est asiatico appaiano spesso come gli unici rappresentanti di questo tipo di commercio, però, esso è in realtà estremamente complesso e radicato a livello globale. L’impiego di specie selvatiche comprende svariati settori del commercio e della produzione, che interessano anche l’Europa, il Nord America e l’Africa meridionale, e su cui fa affidamento un numero non trascurabile di persone in tutto il mondo. Comprende specie terrestri e marine, allevamenti e bracconaggio, attività legali e illegali, e vale miliardi di dollari l’anno.

Indubbiamente, le normative sul commercio di animali esotici richiedono una revisione sotto molti aspetti. La chiusura di queste attività potrebbe avere però un impatto controverso, offrendo ipoteticamente migliori opportunità per la conservazione e una maggiore sicurezza della salute pubblica, ma simultaneamente alimentando le attività illegali, rischiando addirittura di aggravare la situazione della biodiversità. Non necessariamente il divieto scoraggerebbe questa forma di commercio, che potrebbe invece continuare illegalmente, motivato da profitti finanziari e controllato dalla criminalità organizzata.

Alla base della difficoltà di gestire la chiusura totale del settore, c’è la forte domanda di molti prodotti, spesso radicata nel contesto delle tradizioni popolari. La domanda dei consumatori difficilmente si estinguerebbe, ma farebbe riferimento ad un commercio probabilmente clandestino, ancora più compromesso dal punto di vista igienico-sanitario. Le ripercussioni sarebbero anche economiche, poiché la chiusura delle forniture legali implicherebbe una percezione della scarsità maggiore, aumentando i prezzi sul mercato nero e gli incentivi per il bracconaggio, che a sua volta accelererebbe lo sfruttamento e l’estinzione delle specie in natura.

Per applicare divieti efficaci, bisognerebbe ricollocare milioni di persone impiegate nell’industria della fauna selvatica – in Cina vale 74 miliardi di dollari l’anno e coinvolge circa 14 milioni di persone – e realizzare dei piani compatibili con le realtà sociali ed economiche dei luoghi interessati. Purtroppo, però, sembrerebbe una soluzione poco realistica in molte parti del mondo, caratterizzate da scarsità di risorse in termini di forza lavoro e tecnologie. È inoltre improbabile che le forze dell’ordine ricevano i finanziamenti adeguati per gestire l’applicazione dei divieti nelle attuali circostanze, a causa di priorità più urgenti.

In definitiva, il perdurare del commercio illegale nonostante leggi e regolamentazioni forti – come nel caso delle anguille in Europa – sembra suggerire che la chiusura totale di questo mercato sia di difficile realizzazione. Una risposta senz’altro valida – almeno nell’immediato – sarebbe quella di rivedere la regolamentazione del commercio di fauna selvatica, specialmente quando coinvolge animali vivi, considerando una serie di fattori fondamentali, primi fra tutti il benessere degli animali e la salute pubblica. Sarebbe appropriato focalizzare l’attenzione sulle specie a rischio, garantire controlli regolari sulla salute degli animali e in generale migliorare le condizioni di tutta la catena produttiva, compreso il trasporto degli animali, riducendo il rischio di future epidemie.

Articolo di Erika del 12 Aprile 2020 alle ore 11:10

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