Cibo a km 0, un’utopia per due terzi della popolazione mondiale

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Nello scenario di una crisi globale, come quella del Covid-19, meno del 30% della popolazione potrebbe affidarsi ad un’alimentazione basata su prodotti locali.

Negli ultimi decenni la globalizzazione ha radicalmente modificato la produzione e il consumo di alimenti, con coltivazioni ed esportazioni sempre più efficienti. Il risultato di questo sviluppo è un significativo aumento della disponibilità di cibo in varie parti del mondo, ma anche una vasta diversificazione delle diete, nonché una radicata dipendenza da alimenti importati da altri paesi. Gli effetti del raggiungimento di un sistema complesso, se pur efficiente, diventano visibili durante una crisi globale, come quella della pandemia Covid-19, poiché le catene di approvvigionamento alimentare globali sono interrotte.

Un nuovo studio pubblicato su Nature Food, guidato dalla ricercatrice Pekka Kinnunen dell’Università di Aalto, in Finlandia, evidenzia le difficoltà di sopperire alla domanda alimentare mondiale in relazione alla distanza delle colture e delle produzioni, nello scenario possibile di un approvvigionamento limitato dall’interruzione delle catene alimentari, anche nell’ipotesi di una riduzione degli sprechi e del miglioramento dei metodi di coltivazione. Prendendo in considerazione sei gruppi di colture principali – cereali temperati (grano, orzo, segale), riso, mais, cereali tropicali (miglio, sorgo), radici tropicali (manioca) e legumi – lo studio ha evidenziato un gap significativo tra produzione e consumatore in termini di distanze e disponibilità, dovuto alle differenze esistenti tra le diverse aree e la vegetazione locale. Ad esempio, “in Europa e in Nord America le colture temperate, come il grano, possono essere ottenute per lo più entro un raggio di 500 chilometri”, spiega Kinnunen. “In confronto, la media globale è di circa 3.800 chilometri”.

La possibilità di basarsi su un’alimentazione a km 0, intesa nel raggio del 100 chilometri, risulta infine ristretta ad una porzione limitata di popolazione. Per i cereali da colture temperate, secondo la ricerca, l’approvvigionamento sarebbe possibile solo per il 27% della popolazione, il 22% per i cereali tropicali, il 28% per il riso e il 27% per i legumi. Mais e radici tropicali sarebbero disponibili invece soltanto per l’11-16% della popolazione, a ulteriore conferma della difficoltà di affidarsi esclusivamente a risorse locali. Le barriere alimentari sono inoltre dovute alla predominanza di monocolture in vaste aree, sottolinea Kinnunen, un dato che evidenzia il carattere globale e complesso delle nostre “dipendenze” alimentari.

Con gli attuali metodi di produzione e le abitudini di consumo, la sola produzione locale non può soddisfare la domanda di cibo, sottolinea il co-autore dello studio Matti Kummu. La crisi legata alla pandemia da Covid-19 in corso evidenzia l’importanza della produzione alimentare autosufficiente, ma anche l’impatto ambientale di un sistema principalmente basato sulle importazioni. “Sarebbe importante anche valutare i rischi causati dalla dipendenza da input agricoli importati come proteine ​​di mangimi, fertilizzanti ed energia”, afferma Kummu.

Articolo di Erika del 21 Aprile 2020 alle ore 13:19

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