Perché le pandemie potrebbero entrare a far parte della nostra “normalità”?

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La distruzione degli habitat costringe le specie selvatiche ad entrare in contatto con gli esseri umani, aumentando il rischio di zoonosi.

L’influenza dell’attività umana sulla natura sta creando i presupposti per la diffusione di pandemie più letali, avvertono gli scienziati. Il trattamento “promiscuo” del pianeta a lungo termine può generare – e lo sta già facendo – squilibri irreversibili negli ecosistemi, innescando una pericolosa mescolanza tra l’ambiente umano e quello animale. Un mancato intervento in questo senso, secondo un nuovo studio, potrebbe rendere le epidemie più frequenti, ma anche più pericolose.

Analizzando il legame tra virus, fauna selvatica e habitat, risulta che l’attività umana è in grado di moltiplicare i rischi di malattie contagiose. Questo perché la deforestazione e altre forme di conversione terrestre costringono le specie esotiche verso ambienti artificiali, fuori dalle loro nicchie evolutive, entrando sempre più in contatto con gli umani. Da queste interazioni si sviluppano nuovi ceppi virali, che in contesti normali sarebbero innocui. I centri per il controllo e la prevenzione di malattie hanno evidenziato che tre quarti delle malattie emergenti o sconosciute che infettano l’uomo provengono dagli animali, un rischio che va in crescendo con l’abuso sempre maggiore delle risorse terrestri.

La migrazione verso i territori antropogenici per sfuggire alla drastica riduzione degli habitat è oggi comune a moltissime specie selvatiche. I pipistrelli, la specie più “incolpata” per l’origine del Covid-19, sono particolarmente soggetti a questo fenomeno e ospitano naturalmente una grande varietà di virus. L’adattamento ad aree disturbate dall’uomo, come foreste sgombrate, paludi o terreni adibiti ad ospitare progetti minerari o residenziali, accresce la probabilità di contatto e quindi di zoonosi. La diffusione di un nuovo coronavirus dai pipistrelli in Asia era stata prevista due anni fa dagli scienziati, in parte perché si tratta di un’area particolarmente colpita dalla deforestazione e da altre pressioni ambientali.

Secondo Roger Frutos, specialista in malattie infettive dell’Università di Montpellier e co-autore dello studio, la distruzione degli habitat naturali è il primo passo fondamentale per la proliferazione di nuovi virus, seguito da numerosi altri fattori che ne determinano il trasferimento all’uomo. Circa 3.200 ceppi di coronavirus diversi sono stati rilevati nei pipistrelli, molti dei quali innocui per l’uomo. Ma due di questi, trovati in Asia orientale, sono risultati strettamente correlati al Covid-19. Gli studi sulle epidemie degli ultimi decenni hanno sempre trovato un intermediario animale – domestico o selvatico – legato a zone cruciali: per la Sars del 2003 era uno zibetto in Cina, per la Mers del 2012 un cammello in Medio Oriente.

Il pangolino era tra le specie indiziate per il Covid-19. E’ molto diffuso tra i mercati di fauna selvatica in Cina.

Oltre l’Asia, un’area chiave per possibili epidemie future è il Sud America, secondo gli esperti, a causa della riduzione indiscriminata dell’Amazzonia e di altre foreste. Studi brasiliani hanno rilevato che la prevalenza virale è maggiore nei pipistrelli che vivono in nei pressi delle zone deforestate, rispetto ai boschi incontaminati (9,3% contro 3,7%). Cambiando l’uso del suolo, spiega Alessandra Nava del Biobank di Manaus, “si apre una porta”: gli equilibri ecologici si interrompono e le malattie fuoriescono dal loro contesto naturale. È ciò che è avvenuto per la malattia di Lyme, diffusa dai capibara, riscontrata nelle aree dove non esiste più un equilibrio tra cacciatore e preda e le specie in generale. “Il problema nasce quando metti diverse specie che non sono naturalmente vicine tra loro nello stesso ambiente. Ciò consente alle mutazioni virali di passare ad altre specie”, ha affermato. “Dobbiamo pensare a come trattiamo gli animali selvatici e la natura. In questo momento li stiamo trattando in modo troppo promiscuo”.

Tierra Smiley Evans, un’epidemiologa dell’Università della California, afferma che le specie in via di estinzione o minacciate hanno probabilità maggiori di sviluppare virus rispetto alle specie meno a rischio. Il legame tra stress ambientale e salute umana è stato reso più evidente dalla pandemia di Covid-19. La speranza, afferma Evans, è che da una tragedia come questa emerga “la consapevolezza che esiste un legame tra il modo in cui trattiamo la natura e il nostro benessere”.

Ma prevenire future pandemie, sottolineano gli esperti, non vuol dire abbattere le specie, come molte comunità stanno già facendo, bensì vivere in sicurezza con esse, garantendo una maggiore protezione degli habitat esistenti e cambiando il modo in cui interveniamo sul suolo. È necessaria poi una cooperazione internazionale per incoraggiare il monitoraggio e l’istruzione a livello mondiale e locale affinché i focolai futuri possano essere contenuti nella fase iniziale e impedire che questi diventino pandemie.

Articolo di Erika del 08 Maggio 2020 alle ore 15:24

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