Nonostante gli oceani occupino la maggior parte della superficie terrestre, sappiamo ancora troppo poco sull’impatto degli eventi meteorologici estremi sulle specie marine.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un incremento dei fenomeni meteorologici estremi sia in termini di frequenza che intensità in tutto il mondo, dimostrando una correlazione con il cambiamento climatico indotto dall’uomo. Siccità, inondazioni e tempeste si verificano in diverse aree del pianeta determinando impatti ambientali talvolta drammatici, sia sulla terraferma che nell’oceano. Quest’ultimo luogo, sebbene occupi la maggior parte della superficie terrestre, oggi resta ancora poco studiato in relazione al clima estremo.
Il team di ricercatori dell’ETH di Zurigo ha sviluppato un modello sugli oceani basandosi su un’ondata di caldo estremo che nel 2011 distrusse vaste aree di foreste di alghe al largo della costa occidentale dell’Australia. Si tratta probabilmente del peggior evento di “blob” di acqua calda nel Pacifico, responsabile della morte di milioni di uccelli marini, pesci e altri animali. Secondo gli scienziati, guidati dall’esperto Nicolas Gruber dell’ETH, non furono soltanto le temperature elevate a causare la morte di massa, ma una combinazione di più eventi simultanei.
“Quando la vita marina si confronta con più fattori di stress contemporaneamente, ha difficoltà ad acclimatarsi”, spiega Gruber nello studio pubblicato su Nature. “Per una specie marina che vive già al limite massimo del suo intervallo di temperatura ottimale, un’ulteriore carenza di ossigeno può significare la morte”. Ed è così che condizioni già precarie per molte specie diventano fatali. Bisogna studiare più da vicino “la catena di fattori ambientali che conducono a tali estremi”, sottolinea Gruber, “non solo nelle singole regioni, ma a livello globale”, e bisogna farlo urgentemente.
I risultati hanno mostrato che il numero di giorni in cui la temperatura dell’oceano era troppo calda è aumentato ogni anno dal 1861 al 2020, passando da una media di 4 giorni a una media di 40. Ma nonostante i valori allarmanti, sappiamo ancora poco dell’impatto sugli ecosistemi marini. Ad esempio, “sappiamo che i faggi delle foreste svizzere sono meno resistenti alla siccità rispetto ai pini”, osserva Meike Vogt, coautrice della ricerca, ma “non conosciamo la tolleranza di molte specie marine diverse”.
C’è una grossa lacuna nella comprensione della struttura e della funzione dell’ecosistema nelle varie regioni oceaniche, continua Vogt, che va colmata al più presto. “Solo quando avremo queste basi saremo in grado di determinare l’impatto del cambiamento climatico e degli eventi estremi”.
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