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L’agricoltura è una delle attività antropiche che contribuiscono maggiormente alle emissioni globali inquinanti, con un contributo del 24% sul totale. Il costo ambientale della produzione di cibo destinato al consumo umano e agli allevamenti intensivi è davvero alto, un dato che però non si riflette sul prezzo attuale degli alimenti, come evidenzia un nuovo studio pubblicato su Nature Communications. Bisognerebbe invece quantificare il danno ambientale di ogni prodotto in termini di gas serra, ma soprattutto intervenire sui modelli di produzione e di consumo per raggiungere gli obiettivi del Green Deal europeo, che punta alle emissioni nette a zero entro il 2050.
Se i costi ambientali aggiuntivi dei prodotti alimentari venissero considerati nel loro prezzo finale, i derivati animali – soprattutto la carne – avrebbero un prezzo molto più alto, anche in confronto a prodotti convenzionali e biologici. Secondo le stime del team di ricercatori tedeschi, in base all’impatto climatico i prodotti lattiero-caseari dovrebbero avere un prezzo del 91% più alto, mentre i prodotti a base di carne dovrebbero essere fino al 146% più costosi. Nel caso della carne, in particolare, sia i metodi convenzionali che biologici determinano delle emissioni elevate: gli allevamenti biologici richiedono infatti una maggiore superficie per soddisfare gli standard di benessere degli animali, risultando al contempo meno produttivi.
In generale, il confronto tra i diversi metodi di coltivazione ha mostrato che le emissioni derivanti dall’agricoltura biologica sono leggermente inferiori rispetto ai metodi di produzione convenzionali. I ricercatori hanno inoltre osservato che un divario maggiore nelle emissioni è legato più spesso al tipo di alimento piuttosto che al metodo di coltivazione, suggerendo che la scelta dell’alimento potrebbe avere un impatto più significativo in termini ambientali rispetto al modo in cui il cibo viene coltivato e allevato. Un dato che ha sorpreso gli esperti, soprattutto in relazione al prezzo errato che ne deriva.
“Se questi errori di prezzo di mercato dovessero cessare di esistere o almeno essere ridotti, questo avrebbe anche un impatto importante sulla domanda di cibo”, ha sottolineato Amelie Michalke, co-autrice dello studio. “Un cibo che diventa molto più costoso sarà anche molto meno richiesto”. In tal modo, si potrebbe favorire il consumo di alimenti meno impattanti, tenendo conto del principio “chi inquina paga”. Ma ciò causerebbe una serie di complicanze, a partire dall’inaccessibilità di molti prodotti di uso comune.
Anche piccoli aumenti di prezzo potrebbero rendere il cibo inaccessibile per molti consumatori, che hanno esigenze molto diverse. I prodotti essenziali per molte persone potrebbero includere quelli più costosi, il che sarebbe socialmente insostenibile. Ma i ricercatori hanno sottolineato la necessità di introdurre dei sussidi governativi e delle misure adeguate per garantire tali cambiamenti in modo sensibile e un accesso equo all’alimentazione per tutti. Modificando i modelli attuali, ci sarebbero molteplici vantaggi, dalla riduzione del consumo di carne – che contribuisce in maniera significativa alle emissioni di gas serra – al recupero di terreni verdi, alla riduzione delle enormi differenze di prezzo con i prodotti bio che supportano la salute del suolo, la riduzione dell’uso dei pesticidi e fertilizzanti. Tradurre l’impatto climatico in costi potrebbe rendere inoltre i consumatori più attivi e sensibili dal punto di vista ambientale, secondo il team, fornendo anche un buon ritorno economico.
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