Danni delle microplastiche sulla salute umana: perché ancora non ne sappiamo nulla?

Le microplastiche entrano abitualmente nel nostro organismo attraverso l’ingestione e l’inalazione, ma ancora non conosciamo gli effetti che hanno sulla nostra salute. Servono ricerche urgenti.

Sono entrate nella catena alimentare delle creature marine, sono arrivate nei luoghi più remoti del pianeta, sappiamo che ne ingeriamo una quantità pari a 120.000 particelle all’anno attraverso l’aria contaminata e il cibo: le microplastiche sono letteralmente ovunque. Tuttavia, ad oggi gli effetti dell’ingestione e l’inalazione abituale di queste particelle sulla salute umana sono ancora sconosciuti, a causa di una mancanza di ricerche scientifiche in merito.

Alla luce dello spaventoso accumulo di questo materiale in ogni ambiente della Terra, ma soprattutto delle evidenze preoccupanti degli studi tossicologici sugli animali, sembra incredibile un tale ritardo riguardo i danni sugli esseri umani. Molti esperti stanno chiedendo indagini urgenti, facendo eco agli appelli dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Anche se non avremmo motivo di allarmarci sugli effetti delle microplastiche, secondo il chimico Duncan McGillivray dell’Università di Auckland, non vuol dire che dobbiamo rilassarci troppo, perché “ci sono troppe incognite su come le microplastiche influiscono sulla salute”.

In un articolo pubblicato su Science, gli scienziati Dick Vethaak della Vrije Universiteit di Amsterdam e Juliette Legler dell’Università di Utrecht avvertono che la portata dell’inquinamento da microplastiche, l’ingestione e l’inalazione di queste particelle ha il potenziale per diventare un’altra crisi umanitaria. Gli esperti hanno delineato un quadro di quello che potrebbero fare queste sostanze sintetiche microscopiche al nostro organismo.

Sebbene l’esposizione umana alle microplastiche vada avanti ormai da anni, ad oggi non è stata documentata alcuna tossicità immediata e grave, ma è il danno potenziale derivante da concentrazioni crescenti e dall’esposizione a lungo termine che preoccupano di più. Mentre i frammenti più grandi sembrano essere eliminati dal nostro corpo, come i rifiuti alimentari, le particelle più piccole hanno un potenziale maggiore di tossicità, spiegano i ricercatori.

Il problema di base è che non possediamo ancora la tecnologia per isolare, campionare e rilevare facilmente microparticelle (di dimensioni inferiori a 10 micrometri) e nanoparticelle (inferiori a 1 micrometro) delle microplastiche, osservano Vethaak e Legler. Di conseguenza, non siamo ancora in grado di comprendere i livelli di esposizione del corpo umano a queste sostanze sintetiche.

Per quanto ne sappiamo, le particelle più piccole potrebbero spostarsi attraverso la membrana cellulare e causare effetti dannosi attraverso l’infiammazione. “Studi su roditori e specie acquatiche hanno indicato la traslocazione di microplastiche di <10 µm dalla cavità intestinale alla linfa e ai sistemi circolatori, causando esposizione sistemica e accumulo nei tessuti tra cui fegato, reni e cervello”, si legge nello studio. Si tratta però di pochissimi test dai risultati poco attendibili, poiché effettuati in laboratorio su nuove particelle.

Gli studi citati nell’articolo suggeriscono che i macrofagi (le nostre cellule che smaltiscono i rifiuti) tendono a raccogliere più facilmente microparticelle di plastica degradate dall’ambiente, piuttosto che incontaminate. Esiste pertanto il rischio che le microplastiche possano degradarsi e comportarsi in modo diverso all’interno del nostro corpo rispetto agli ambienti esterni, provocando una certa tossicità. I test a esposizioni elevate hanno evidenziato effetti quali infiammazione, danno cellulare, reazioni immunitarie, effetti neurologici e metabolici. Un esempio potrebbe essere dato dai lavoratori dell’industria tessile e della plastica che sono esposti a grandi quantità di polveri ed hanno presentato infiammazioni e allergie.

Le microplastiche sono inoltre vettori di sostanze tossiche in grado di interferire con il nostro microbioma, che possono includere batteri con resistenza agli antibiotici, virus, ftalati e altre sostanze chimiche di cui non conosciamo gli effetti. Alcuni settori industriali sono legati ad un rischio più alto di esposizione a queste particelle, come l’industria tessile, dove l’enorme produzione di capi sintetici contribuisce significativamente a questa forma di inquinamento.

In generale, ci troviamo davanti a un quadro ancora troppo confuso ed impreciso, che richiede approfondimenti urgenti. “Sono necessari sforzi di ricerca multidisciplinare, che coinvolgono scienziati del settore medico e ambientale, nonché scienziati dei polimeri, per affrontare questo potenziale rischio per la salute”, concludono Vethaak e Legler. Nel frattempo, dai governi alle industrie, ai consumatori, tutti potremmo impegnarci a ridurre il nostro flusso di microplastiche nell’ambiente.

Articolo di Erika del 22 Febbraio 2021 alle ore 10:29

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